giovedì 25 ottobre 2012

per gli ornitorinchi del II G


ESERCIZI SUI PROMESSI SPOSI CAPITOLO 5

Confronta la ricerca di una soluzione da parte di fra Cristoforo  con la corrispondente ricerca di una soluzione che ha visto impegnato, meno di due giorni prima, don Abbondio (capitolo due il primo pezzo).
-        Qual è lo scopo principale del frate?
-        Quale quello del curato?
-        Anche don Abbondio decide di non rivolgersi al cardinale: con quale motivazione? Qual è invece la motivazione di fra Cristoforo nel suo non rivolgersi ad un’autorità superiore?

Il palazzo di don Rodrigo
-        Quale caratteristica è implicita nella definizione di “palazzotto” con cui il narratore designa questa dimora? (positiva? Negativa? In che modo e in che senso? Che idea trasmette?)
-        Quali dettagli sono riferiti dal narratore per descriverlo? Elencali bene tutti
-        Quali di essi rimandano all’idea di isolamento, decadenza, protervia e di ferocia?
-        Quali caratteristiche riverberano il villaggio e il palazzotto sul loro signore, di cui sono per così dire lo specchio?

Ti diamo quattro vocaboli che sono presenti nel cap 4. Per ognuno scegli 3 sinonimi tra quelli sotto riportati, usandoli una sola volta.  
MESTIZIA
RANCORE
PIETA’
ANGUSTIA

Angoscia, malinconia, commiserazione, astio, misericordia, pena, tristezza, livore, carità, accoramento, preoccupazione, risentimento

lunedì 8 ottobre 2012

per le brutte facce del IV A (da consegnare entro le 21.00 del giorno 09.10.2012)

fare la scansione metrica dei versi seguenti
Virgilio, Eneide IV, 1-100


At regina gravi iamdudum saucia cura
volnus alit venis, et caeco carpitur igni.
Multa viri virtus animo, multusque recursat
gentis honos: haerent infixi pectore voltus
5
verbaque, nec placidam membris dat cura quietem.
Postera Phoebea lustrabat lampade terras,
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
'Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
10
Quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
Degeneres animos timor arguit: heu, quibus ille
iactatus fatis! Quae bella exhausta canebat!
15
Si mihi non animo fixum immotumque sederet,
ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
20
Anna, fatebor enim, miseri post fata Sychaei
coniugis et sparsos fraterna caede Penatis,
solus hic inflexit sensus, animumque labantem
impulit: adgnosco veteris vestigia flammae.
Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat,
25
vel Pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
pallentis umbras Erebi noctemque profundam,
ante, Pudor, quam te violo, aut tua iura resolvo.
Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulchro.'
30
Sic effata sinum lacrimis implevit obortis.

Anna refert: 'O luce magis dilecta sorori,
solane perpetua maerens carpere iuventa,
nec dulcis natos, Veneris nec praemia noris?
Id cinerem aut Manis credis curare sepultos?
35
Esto: aegram nulli quondam flexere mariti,
non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas
ductoresque alii, quos Africa terra triumphis
dives alit: placitone etiam pugnabis amori?
Nec venit in mentem, quorum consederis arvis?
40
Hinc Gaetulae urbes, genus insuperabile bello,
et Numidae infreni cingunt et inhospita Syrtis;
hinc deserta siti regio, lateque furentes
Barcaei. Quid bella Tyro surgentia dicam,
germanique minas?
45
Dis equidem auspicibus reor et Iunone secunda
hunc cursum Iliacas vento tenuisse carinas.
Quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna
coniugio tali! Teucrum comitantibus armis
Punica se quantis attollet gloria rebus!
50
Tu modo posce deos veniam, sacrisque litatis
indulge hospitio, causasque innecte morandi,
dum pelago desaevit hiemps et aquosus Orion,
quassataeque rates, dum non tractabile caelum.'

His dictis incensum animum inflammavit amore,
55
spemque dedit dubiae menti, solvitque pudorem.
Principio delubra adeunt, pacemque per aras
exquirunt; mactant lectas de more bidentis
legiferae Cereri Phoeboque patrique Lyaeo,
Iunoni ante omnis, cui vincla iugalia curae.
60
Ipsa, tenens dextra pateram, pulcherrima Dido
candentis vaccae media inter cornua fundit,
aut ante ora deum pinguis spatiatur ad aras,
instauratque diem donis, pecudumque reclusis
pectoribus inhians spirantia consulit exta.
65
Heu vatum ignarae mentes! quid vota furentem,
quid delubra iuvant? Est mollis flamma medullas
interea, et tacitum vivit sub pectore volnus.
Uritur infelix Dido, totaque vagatur
urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta,
70
quam procul incautam nemora inter Cresia fixit
pastor agens telis, liquitque volatile ferrum
nescius; illa fuga silvas saltusque peragrat
Dictaeos; haeret lateri letalis arundo.
Nunc media Aenean secum per moenia ducit,
75
Sidoniasque ostentat opes urbemque paratam;
incipit effari, mediaque in voce resistit;
nunc eadem labente die convivia quaerit,
Iliacosque iterum demens audire labores
exposcit, pendetque iterum narrantis ab ore.
80
Post, ubi digressi, lumenque obscura vicissim
luna premit suadentque cadentia sidera somnos,
sola domo maeret vacua, stratisque relictis
incubat, illum absens absentem auditque videtque;
aut gremio Ascanium, genitoris imagine capta,
85
detinet, infandum si fallere possit amorem.
Non coeptae adsurgunt turres, non arma iuventus
exercet, portusve aut propugnacula bello
tuta parant; pendent opera interrupta, minaeque
murorum ingentes aequataque machina caelo.

90
Quam simul ac tali persensit peste teneri
cara Iovis coniunx, nec famam obstare furori,
talibus adgreditur Venerem Saturnia dictis:
'Egregiam vero laudem et spolia ampla refertis
tuque puerque tuus, magnum et memorabile nomen,
95
una dolo divom si femina victa duorum est!
Nec me adeo fallit veritam te moenia nostra
suspectas habuisse domos Karthaginis altae.
Sed quis erit modus, aut quo nunc certamine tanto?
Quin potius pacem aeternam pactosque hymenaeos
100
exercemus? Habes, tota quod mente petisti:
ardet amans Dido, traxitque per ossa furorem.
Communem hunc ergo populum paribusque regamus
auspiciis; liceat Phrygio servire marito,
dotalisque tuae Tyrios permittere dextrae.'



per la marmaglia della VG (il compito va spedito entro le ore 21.00 di oggi) chi non dispone di un collegamento internet consegnara' gli elaborati domani in vicepresidenza



venerdì 5 ottobre 2012

IVA compiti per martedi'



Canto 1
1. in questo canto il personaggio di Dante non parla mai riconosci il suo atteggiamento attraverso le indicazioni contenute qua e la
2.confronta le figure di Virgilio e catone.appartengono alla stessa civilta' ma la volonta' di Dio ha aperto una grande distanza:indica i modi nei quali si manifesta questa diversita' e spiega in che cosa consiste
3.il paesaggio ha in questo canto una funzione determinante :ricostruisci le coordinate descrittive
4.individua le numerose metafore che impreziosiscono il discorso di Virgilio e mostrane la funzione
5.nota il rapporto che la metafora iniziale della navicella (verso2) stabilisce con il riferimento finale al navicare  (verso 131) con allusione ad Ulisse. In che senso Dante intende anche attraverso questo rimando affermare la superiorita' del modello  da lui perseguito di conoscenza  rispetto a quello perseguito da Ulisse?

Canto 2
1. Il canto e' caratterizzato da alcuni gesti di grande significato simbolico. Individuali e cerca di spiegare la ragione espressiva e all'occorrenza allegorica.
2.segnala la diversita' di lessico e di stile tra i discorsi di Dante con Casella e il rimprovero di Catone individuando nei primi i segni dell'amicizia e dell'affetto, nel secondo quelli dell'autorita'
3. Quale perplessita' e' provocata in dante da una questione schiettamente temporale? E quale chiarimento viene proposto?

sabato 22 settembre 2012

IV A


Dante Alighieri
Così nel mio parlar voglio esser aspro


Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
e veste sua persona d’un dïaspro
tal che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda1;
ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
né si dilunghi da’ colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giungono altrui e spezzan ciascun’arme:
sì ch’io non so da lei né posso atarme

Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi
né loco che dal suo viso m’asconda;
ché, come fior di fronda,
così de la mia mente tien la cima
Cotanto del mio mal par che si prezzi,
quanto legno di mar che non lieva onda;
e ’l peso che m’affonda
è tal che non potrebbe adequar rima
Ahi angosciosa e dispietata lima
che sordamente la mia vita scemi,
perché non ti ritemi
sì di rodermi il core a scorza a scorza
com’io di dire altrui chi ti dà forza?

Ché più mi triema il cor qualora io penso
di lei in parte ov’altri li occhi induca,
per tema non traluca
lo mio penser di fuor sì che si scopra,
ch’io non fo de la morte, che ogni senso
co li denti d’Amor già mi manduca
ciò è che ’l pensier bruca
la lor vertù, sì che n’allenta l’opra
E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra
con quella spada ond’elli ancise Dido,
Amore, a cui io grido
merzé chiamando, e umilmente il priego:
ed el d’ogni merzé par messo al niego

Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco
allor mi surgon ne la mente strida;
e ’l sangue, ch’è per le vene disperso,
fuggendo corre verso
lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco
Elli mi fiede sotto il braccio manco
sì forte che ’l dolor nel cor rimbalza:
allor dico: «S’elli alza
un’altra volta, Morte m’avrà chiuso
prima che ’l colpo sia disceso giuso»

Così vedess’io lui fender per mezzo
lo core a la crudele che ’l mio squatra;
poi non mi sarebb’atra
la morte, ov’io per sua bellezza corro:
ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra
Omè, perché non latra
per me, com’io per lei, nel caldo borro?
ché tosto griderei: «Io vi soccorro»;
e fare’l volentier, sì come quelli
che ne’ biondi capelli
ch’Amor per consumarmi increspa e dora
metterei mano, e piacere’le allora

S’io avessi le belle trecce prese,
che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille
e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille
Ancor ne li occhi, ond’escon le faville
che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
guarderei presso e fiso,
per vendicar lo fuggir che mi face;
e poi le renderei con amor pace

Canzon, vattene dritto a quella donna
che m’ha ferito il core e che m’invola
quello ond’io ho più gola,
e dàlle per lo cor d’una saetta,
ché bell’onor s’acquista in far vendetta

giovedì 20 settembre 2012

IV A


I, 4
Maecenas atauis edite regibus,
o et praesidium et dulce decus meum,
sunt quos curriculo puluerem Olympicum
collegisse iuuat metaque feruidis
euitata rotis palmaque nobilis
terrarum dominos euehit ad deos;
hunc, si mobilium turba Quiritium
certat tergeminis tollere honoribus;
illum, si proprio condidit horreo
quicquid de Libycis uerritur areis.
Gaudentem patrios findere sarculo
agros Attalicis condicionibus
numquam demoueas, ut trabe Cypria
Myrtoum pauidus nauta secet mare.
Luctantem Icariis fluctibus Africum
mercator metuens otium et oppidi
laudat rura sui; mox reficit rates
quassas, indocilis pauperiem pati.
Est qui nec ueteris pocula Massici
nec partem solido demere de die
spernit, nunc uiridi membra sub arbuto
stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae.
Multos castra iuuant et lituo tubae
permixtus sonitus bellaque matribus
detestata. Manet sub Ioue frigido
uenator tenerae coniugis inmemor,
seu uisa est catulis cerua fidelibus,
seu rupit teretis Marsus aper plagas.
Me doctarum hederae praemia frontium
dis miscent superis, me gelidum nemus
Nympharumque leues cum Satyris chori
secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton.
Quod si me lyricis uatibus inseres,
sublimi feriam sidera uertice.


I, 9
Vides ut alta stet niue candidum
Soracte nec iam sustineant onus
     siluae laborantes geluque
     flumina constiterint acuto?
Dissolue frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
     deprome quadrimum Sabina,
     o Thaliarche, merum diota.
Permitte diuis cetera, qui simul
strauere uentos aequore feruido
     deproeliantis, nec cupressi
     nec ueteres agitantur orni.
Quid si futurum cras, fuge quaerere, et
quem fors dierum cumque dabit, lucro
      adpone nec dulcis amores
     sperne, puer, neque tu choreas,
donec uirenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
     lenesque sub noctem susurri
      composita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
     pignusque dereptum lacertis
     aut digito male pertinaci.


I, 11
Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Vt melius quicquid erit pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, uina liques et spatio breui
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit inuida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.


I, 23
Vitas inuleo me similis, Chloe,
quaerenti pauidam montibus auiis
     matrem non sine uano
     aurarum et silua metu.
Nam seu mobilibus ueris inhorruit
aduentus folliis, seu uirides rubum
     dimouere lacertae,
     et corde et genibus tremit.
Atqui non ego te, tigris ut aspera
Gaetulusue leo, frangere persequor:
     tandem desine matrem
     tempestiua sequi uiro.


I, 37
Nunc est bibendum, nunc pede libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
     ornare puluinar deorum
     tempus erat dapibus, sodales.
Antehac nefas depromere Caecubum
cellis auitis, dum Capitolio
     regina dementis ruinas
     funus et imperio parabat
contaminato cum grege turpium
morbo uirorum, quidlibet impotens
     sperare fortunaque dulci
     ebria. Sed minuit furorem
uix una sospes nauis ab ignibus,
mentemque lymphatam Mareotico
redegit in ueros timores
     Caesar, ab Italia uolantem
remis adurgens, accipiter uelut
mollis columbas aut leporem citus
     uenator in campis niualis
      Haemoniae, daret ut catenis
fatale monstrum. Quae generosius
perire quaerens nec muliebriter
     expauit ensem nec latentis
     classe cita reparauit oras,
ausa et iacentem uisere regiam
uoltu sereno, fortis et asperas
     tractare serpentes, ut atrum
     corpore conbiberet uenenum,
deliberata morte ferocior:
saeuis Liburnis scilicet inuidens
     priuata deduci superbo,
     non humilis mulier, triumpho.


I, 38
Persicos odi, puer, apparatus,
displicent nexae philyra coronae,
mitte sectari, rosa quo locorum
     sera moretur.
Simplici myrto nihil adlabores
sedulus, curo: neque te ministrum
dedecet myrtus neque me sub arta
     uite bibentem.


II, 3
Aequam memento rebus in arduis
seruare mentem, non secus in bonis
     ab insolenti temperatam
     laetitia, moriture Delli,
seu maestus omni tempore uixeris
seu te in remoto gramine per dies
     festos reclinatum bearis
     interiore nota Falerni.
Quo pinus ingens albaque populus
umbram hospitalem consociare amant
     ramis? Quid obliquo laborat
     lympha fugax trepidare riuo?
Huc uina et unguenta et nimium breuis
flores amoenae ferre iube rosae,
     dum res et aetas et Sororum
     fila trium patiuntur atra.
Cedes coemptis saltibus et domo
uillaque, flauus quam Tiberis lauit,
     cedes, et exstructis in altum
     diuitiis potietur heres.
Diuesne prisco natus ab Inacho
nil interest an pauper et infima
     de gente sub diuo moreris,
     uictima nil miserantis Orci;
omnes eodem cogimur, omnium
uersatur urna serius ocius
     sors exitura et nos in aeternum
     exilium impositura cumbae.

II, 14
Eheu fugaces, Postume, Postume,
labuntur anni nec pietas moram
     rugis et instanti senectae
     adferet indomitaeque morti,
non, si trecenis quotquot eunt dies,
amice, places inlacrimabilem
     Plutona tauris, qui ter amplum
     Geryonen Tityonque tristi
compescit unda, scilicet omnibus
quicumque terrae munere uescimur
     enauiganda, siue reges
     siue inopes erimus coloni.
Frustra cruento Marte carebimus
fractisque rauci fluctibus Hadriae,
     frustra per autumnos nocentem
     corporibus metuemus Austrum:
uisendus ater flumine languido
Cocytos errans et Danai genus
     infame damnatusque longi
     Sisyphus Aeolides laboris.
Linquenda tellus et domus et placens
uxor, neque harum quas colis arborum
     te praeter inuisas cupressos
     ulla breuem dominum sequetur;
absumet heres Caecuba dignior
seruata centum clauibus et mero
     tinguet pauimentum superbo,
     pontificum potiore cenis.

venerdì 14 settembre 2012

per la V G


LETTERA A MONSIEUR GUILLON
PER LA SUA INCOMPETENZA A GIUDICARE
I POETI ITALIANI

      Signore,
Gli articoli sottoscritti da lei nel Giornale italiano sono dotati di tanta acutezza, di tanto brio, di tanta opportunità d'erudizione e dignità di censura, ch'io, non conoscendo i libri da lei criticati, la tenni per l'ingegno piú elegante fra quanti mai scescro d'oltremonte riformatori delle nostre gazzette. Solo mi dava a pensare l'osservazione di Lorenzo Sterne: a frenchman, whatever be bis talents, has no sort of prudery in schewing them (1) : onde io temeva ch'ella per impazienza di sfoggiare l'ingegno e la dottrina che l'adornano sentenziando gli scrittori italiani, non aspettasse il tempo necessario ad apprendere la loro lingua. Temeva: ma ohimè! lessi l'articolo sui Sepolcri, e il dubbio, pur troppo, s'é convertito in certezza. Vero è che il cavaliere Bettinelli scrisse: L'autore de'Sepolcri ha troppo ingegno per me; e quindi ho dovuto leggerlo e rileggerlo con applicazione, perch'ei si leva a un'alta sfera di grandi pensieri e di frasi tutte sue. Vincenzo Monti, passato per Mantova, me li rilesse; entusiasta ne' piú bei passi, e profondo scrutatore di tante bellezze, assentiva alle mie osservazioni sull'oscurità. Non è dunque lieve sforzo d'ingegno se d'una poesia difficile anche a tali maestri ella abbia indovinato alcuni passi: ma indovinare per giudicare? -- Però l'amor delle lettere mi conforta a mandarle il suo articolo con alcune postille, ond'ella s'accorga d'aver censurato, ma non inteso il poema, e si persuada quindi allo studio della nostra lingua. E allora -- allora ch'ella per alcuni anni avrà coltivati i nostri poeti -- oh come la critica d'un tanto Aristarco guiderà al vero ed al bello gl'ingegni cari alle Muse!


DEI SEPOLCRI, CARME DI UGO FOSCOLO

Articolo trascritto dal «Giornale Italiano»,
N°173, 22 Giugno 1807.

Cominceremo dal rallegrarci col sig. Foscolo, per non aver egli imitato Socrate e Diogene nella loro indifferenza, e nel loro disprezzo per le sepolture. Ei non pensa col primo, che sia eguale d'esser gettato al letamaio, o rispettosamente deposto nella tomba; e molto men col secondo, che sia gradevole l'esser divorato dai cani, dagli avoltoi, o l'esser decomposto dal sole e dalla pioggia. Si vede che il nostro poeta è realmente persuaso che il sonno della morte è men duro
All'ombra de' cipressi, e dentro l' urne
Confortate di pianto.
Ei vorrebbe ancora che dopo la di lui morte, si mettesse sulla sua tomba (2) un sasso che distingua le sue dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte.
Non credendo esser (3) come l'uomo indegno d'esser compianto dopo la sua vita , e di cui dice:
Sol chi non lascia eredità d'affetti
Poca gioia ha dell'urna,
ei non vuole abbandonare la sua polve
...alle ortiche di deserta gleba
Ove nè donna innamorata preghi,
Nè passeggier solingo oda il sospiro
Che dal tumulo a noi manda Natura.
Esprimendo sopra un soggetto cosí lugubre qualche pensiero, che ha di comune con Hervey (4) , egli desidererebbe che i cimiteri non fossero rilegati fuor de' guardi pietosi; e si duole di quella nuova legge che li getta fuori delle città, ed alla quale rimprovera di contendere il nome ai morti. Il poeta è ingiusto, perocchè è permesso di porre inscrizioni ed epitaffi sui sepolcri; ma è peraltro rispettabile cotesta ingiustizia, poiché essa proviene dal vivo dolore ch'ei prova, perchè il luogo, ove riposano le ceneri di Parini, non è distinto da alcun segno onorifico di simil genere. Da ciò prendendo occasione di trasformare in satira il suo canto elegiaco (5) , si mette a riprendere con acrimonia i compatriotti di Parini, che non curarono i preziosi avanzi di quel poeta i di cui canti
Il lombardo pungean Sardanapalo
Cui solo è dolce il muggito de' buoi
Che dagli antri Abduani e dal Ticino
Lo fan d'ozi beato e di vivande.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . a lui (Parini) non ombra pose
Tra le sue mura la città, lasciva
D'evirati cantori allettatrice,
Non pietra, non parola; e forse l'ossa
Col mozzo capo gl'insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.
Oltre all'esser ciò sommamente duro e amaro (6) , non è nemmeno esatto. Noi non crediamo esservi in Lombardia un Sardanapalo. Che se alcuno meritasse tal nome per esser beato d'ozi e di vivande, vi sarebbero dei Sardanapali in tutte le parti della terra (7) , a Zante non meno che a Milano. Da qualche anno in qua non è da rimproverarsi a questa città il torto d'esser d'evirati cantori allattatrice (8). L'immagine poi della testa insanguinata di un ladro giustiziato, è troppo stentata, troppo ispida, e di gusto troppo cattivo, per poter scusarla col quidlibet audendi d'Orazio (9) . Essa ripugna, principalmente in un poema che non deve respirar altro che una dolce, religiosa e consolante malinconia (10) . Non c'è alcuno fra i poeti, che hanno parlato di sepolcri, che abbia usato un'immagine sí disgustosa. La loro sensibilità era sempre accompagnata dalla sana e verace filosofia. In quei cimiteri ove senza distinzione son riuniti gli avanzi dell'umanità, Virgilio non vedeva nulla di piú contrastante che i nemici che la morte aveva riconciliati:
Hic, motus animorum, atque haec certamina tanta
Pulveris exigui iactu compressa quiescit (11).
Ed è su tal soggetto che Hervey esclamava: « Perchè non vedesi regnar tra i viventi quella unione, quella pace, che regnano nella società de' morti? » (12) .
Orazio senza dare uno sguardo penoso ai vizi di coloro ch'erano vissuti, e le ceneri dei quali trovavansi necessariamente confuse con quelle degli uomini dabbene, contentavasi di dire:
Mixta senum ac iuvenum densantur funera.
Questa sí, è vera filosofia, e forse anche vera sensibilità (13) : l'affettazione d'una selvaggia misantropia é ben lontana dall'una e dall'altra. L'autore la spinge fino a chiamar gli uomini umane belve (14) , al tempo istesso ch'ei parla delle piú incontestabili prove di sensibilità, ch'essi abbiano mai date nel costruire sepolcri:
Dal dí che nozze e tribunali ed are
Dier alle umane belve esser pietose
Di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi
All'etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che natura
Con veci eterne a sensi altri destina.
Dopo questi collerici ghiribizzi (15) contro la specie umana, il nostro poeta espone benissimo i vantaggi che recarono i sepolcri ai viventi, e i religiosi ed utili atti dei quali furono l'occasione o l'oggetto.
A egregie cose il forte animo accendono
L'urne de' forti . . . . . . . . . . e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta
Ed eccolo in quella chiesa fiorentina ove sono sono i mausolei di N. Macchiavelli, di Michel-Angelo, di Galileo ec. E l'urna d'Alfieri riceve i suoi piú teneri, e rispettosi omaggi. Quindi ad un tratto ritrocede fino ai sepolcri degli Ateniesi nel campo di Maratona, ove aggiungendo le proprie finzioni alle favolose tradizioni che ci lasciò Pausania su questo Ceramico, ei vi ode non solo i nitriti dei cavalli, ma ancora delle Parche il Canto. Questa è forse la prima volta che si sono intese cantar le Parche (16) . Ritrocedendo sempre rapidamente, ei s'inoltra nei tempi favolosi della Grecia. Egli è alla tomba d'Achille e di Patroclo; quindi passa a quella d'Ajace al promontorio Retèo, poi nella Troade al sepolcro d'Ilo, antico Dardanide (17) . Young, Hervey, Gray non fecer tanti viaggi (18) ; essi si contentarono di meditar sui sepolcri, che essi medesimi ed i loro compatriotti avean sotto gli occhi; e disser cose piú commoventi, e molto piú consolanti, perocché tutti i loro canti sono rallegrati della speranza della futura risurrezione, della quale il signor F. non dice cosa alcuna.
Finalmente dopo aver parlato della morte d'Elettra, e delle funebri predizioni di Cassandra, ei si ferma alla tomba dei Greci che son periti innanzi a Troia, e prende piacere a vedervi Omero 
(19) che
Placando quelle afflitte alme col canto,
I Prenci Argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceano.
E termina cosí:
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.
Sembraci che sia questo un fine ben brusco in un'opera di sentimento. Si direbbe che un simil soggetto avesse troppo stancata la lira del poeta, per poter avanzar di piú (20) . L'andamento del suo poema era già diventato penoso quando la sensibilità non animava piú la sua musa; e dessa aveva già cessato di spargere le sue bellezze nei di lui versi, allorchè egli dai sepolcri presenti si era trasportato a quelli dei tempi eroici della Grecia. Questa transizione l'ha condotto a dei dettagli d'erudizione; ora l'erudizione inaridisce il sentimento; e quindi ne viene che questa seconda parte della sua elegia, che ha una certa disparità colla prima, interessa molto meno la nostra anima, e convien molto meno a quella dolce voluttà ch'essa trova ad intenerirsi sulle ceneri dei nostri simili.
Alcuni severi censori hanno accusato l'autore d'aver fatto entrare nella composizion dei suoi versi quella sorte d'asprezza che regna nella maggior parte de' suoi sentimenti, e de' suoi pensieri. Certo che coi distinti talenti onde egli è ampiamente fornito, avrebbe potuto render piú dolce la sua versificazione, ma egli, senza fallo, ha creduto che il suo stile poetico aver dovesse una fisonomia analoga ai suoi pensieri. Sembra che abbia temuto di esprimerli troppo mollemente, adoperando un linguaggio piú grato agli orecchi delicati. Ma finalmente ogni scrittore d'un certo merito ha uno stile suo proprio, come ogni uomo degno di tal nome ha il suo carattere particolare; e siccome egli è sol proprio dei vili il non avere un carattere deciso, cosi è proprio soltanto degli spiriti mediocri il non usar che il linguaggio del volgo

GUILL...

Ella vede dalle mie note quanto ha sbagliato su' passi da lei citati; molto piú dunque su la tessitura la quale dipende dalle transizioni. E le transizioni sono ardue sempre a chi scrive, e sovente a chi legge; specialmente in una poesia lirica, e d'un autore che, non so se per virtú o per vizio, transvolat in medio posita, ed afferrando le idee cardinali, lascia a' lettori la compiacenza e la noia di desumere le intermedie. Ma chi fraintende le parole che hanno significato certo in sé stesse, come mai potrà cogliere le transizioni formate da tenuissime modificazioni di lingua e da particelle che acquistano senso e vita diversa secondo gli accidenti, il tempo, il luogo in cui son collocate? Né ella dannerebbe la disparità di colorito nel poema, s'ella potesse discernere le mezze tinte che guidano riposatamente da un principio affettuoso ad una fine veemente. Però l'estratto ch'ella ne fa non é, né poteva essere esatto. Piacciale dunque di leggerlo com'io lo darò, acciocch'ella possa conoscere, se non altro, lo scheletro d'un componimento reputato non indegno delle sue censure.
L'estratto mostrerà come questo componimento, spogliato che sia delle immagini dello stile e degli affetti, rimanga senza un'unica idea nuova. Ma il numero delle idee è determinato; la loro combinazione è infinita: e chi meglio combina meglio scrive. Ricchissima sorgente di combinazioni era a' poeti greci e latini l'applicazione delle storie e delle favole alla morale. Chi non sa che gli uomini egregi sono malignati in vita e celebrati dopo la morte? Ma Orazio applicò a questa sentenza le tradizioni di Romolo, di Bacco, de' Tindaridi e d'Ercole:
Romulus, et Liber pater, et cum Castore Pollux
Post ingentia facta Deorum in templa recepti,
Dum terras hominumque colunt genus, aspera bella
Componunt, agros assignant, oppida condunt;
Ploravere suis non respondere favorem
Speratum meritis. Diram qui contudit hydram
Notaque fatali portenta labore subegit,
Comperit invidiam supremo fine domari.
Urit enim fulgore suo qui praegravat artes
Infra se positas: extinctus amabitur idem.
[Ep. II, I, 5-14].
L'autore de' Sepolcri volendo consolare con la stessa sentenza non l'ambizione d'un principe poco amato, ma la virtú mal rimeritata, dovea procacciarsi immagini meno magnifiche e piú passionate; onde si valse della tradizione delle armi d'Achille, le quali carpite alla virtú d'Ajace dalla fraude d'Ulisse, furono per un naufragio portate dal mare sul tumulo dell'Eroe che le meritava:
E se il piloto ti drizzò l'antenna
Oltre l'isole Egée, d'antichi fatti
Certo udisti suonar dell'Ellesponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode Retée l'armi d'Achille
Sopra l'ossa d'Aiace. A' generosi
Giusta di glorie dispensiera è Morte.
Nè senno astuto, nè favor di regi
All'Itaco le spoglie ardue serbava,
Chè alla poppa raminga le ritolse
L'onda incitata dagl'inferni Dei
.
Cosí la fantasia del lettore corre a' secoli dimenticati; si compiace dell'entusiasmo poetico che trae il mare e l'inferno alla vendetta dell'ingiustizia: e vede la verità che non parla ma opera. E perchè il sentimento, com'ella dice, non s'inaridisse, l'autore non doveva scansare i dettagli d'erudizione, bensí usarne meglio; non seppe: e però prega i censori d'insegnargli non ch'ei deve far meglio -- e' lo sa -- ma se si possa, e come.
Eccole l'estratto.

I monumenti inutili a' morti giovano a' vivi perchè destano affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone dabbene: solo i malvagi, che si sentono immeritevoli di memoria, non la curano; a torto dunque la legge accomuna le sepolture de' tristi e dei buoni, degl'illustri e degl'infami.
Istituzione delle sepolture nata col patto sociale. Religione per gli estinti derivata dalle virtú domestiche. Mausolei eretti dall'amor della patria agli Eroi. Morbi e superstizioni de' sepolcri promiscui nelle chiese cattoliche. Usi funebri de' popoli celebri. Inutilità de' monumenti alle nazioni corrotte e vili. Le reliquie degli Eroi destano a nobili imprese, e nobilitano le città che le raccolgono: esortazioni agl'italiani di venerare i sepolcri de' loro illustri concittadini; que' monumenti ispireranno l'emulazione agli studi e l'amor della patria, come le tombe di Maratona nutriano ne' Greci l'abborrimento a' Barbari.
Anche i luoghi ov'erano le tombe de grandi, sebbene non vi rimanga vestigio, infiammano la mente de' generosi. Quantunque gli uomini d'egregia virtú sieno perseguitati vivendo, e il tempo distrugga i lor monumenti, la memoria delle virtú e de' monumenti vive immortale negli scrittori, e si rianima negl'ingegni che coltivano le muse. Testimonio il sepolcro d'Ilo, scoperto dopo tante età da' viaggiatori che l' amor delle lettere trasse a peregrinar alla Troade; sepolcro privilegiato da' fati perchè protesse il corpo d'Elettra da cui nacquero i Dardanidi autori dell'origine di Roma, e della prosapia de' Cesari signori del mondo. L'autore chiude con un episodio sopra questo sepolcro:
Ivi posò Erittonio , e dorme il giusto
Cenere d'Ilo; ivi l'Iliache donne
Sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando
Da' lor mariti l'imminente fato;
Ivi Cassandra , allor che il Nume in petto
Le fea parlar di Troia il dí mortale,
Venne; e all'ombre cantò carme amoroso,
E guidava i nepoti, e l'amoroso
Apprendeva lamento a' giovinetti;
E dicea sospirando: Oh se mai d'Argo,
Ove al Tidide e di Laerte [al] figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta
Ritorno il cielo, invan la patria vostra
Cercherete! Le mura opra di Febo
Sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
In queste tombe: chè de' Numi é dono
Servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi, che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete, ahi! presto
Di vedovili lagrime innaffiati,
Proteggete i miei padri: e chi la scure
Asterrà pio dalle devote frondi,
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l'altare:
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
E interrogarle. Gemeranno gli antri
Secreti; e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
Splendidamente su le mute vie
Per far piú bello l'ultimo trofeo
Ai fatali Pelídi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
I prenci Argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
Ove fia santo e lacrimato il sangue
Per la patria versato, e finché il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.
Recito intero quest'ultimo squarcio dannato da lei come arido di sentimento perché a me anzi pare, non che il soggetto abbia stancata la lira del poeta, ma ch'egli abbia sin da principio temperate le forze per valersene pienamente in questo luogo. Per persuaderci delle sue sentenze su la santità e la gloria de' sepolcri, ei ci presenta un monumento che supero l'ingiurie di tanti secoli. Le Troiane che pregano scapigliata sul mausoleo de' primi príncipi d'Ilio, onde allontanare dalla lor patria e da' loro congiunti le imminenti calamità -- la v'ergine Cassandra che guida i nipoti giovanetti a piangere su le ceneri de' loro antenati -- che li consola dell'esilio e della povertà decretata da' fati, profetando che la gloria de' Dardanidi risplenderà sempre in quelle tombe -- la preghiera alle palme e a' cipressi piantati su quel sepolcro dalle nuore di Priamo, e cresciuti per le lagrime di tante vedove -- la benedizione a chi non troncherà quelle piante, sotto l'ombra delle quali Omero cieco e mendico andrà un giorno vagando per penetrar negli avelli ed interrogare gli spettri de' Re Troiani su la caduta d'Ilio onde celebrar le vittorie de' suoi concittadini -- gli spettri che con pietoso furore si dolgono che la lor patria sia due volte risorta dalle prime rovine per far piú splendida la vendetta de' Greci, e la gloria della schiatta di Peleo alla quale era riserbato l'ultimo eccidio di Troia -- Omero che mentre tramanda i fasti de' vincitori, placa pietosamente col suo canto anche l'ombre infelici de' vinti -- tanti personaggi, tante passioni, tanti atteggiamenti e tutti raccolti intorno a un solo sepolcro sembrano a lei senz'anima e senza invenzione? E la fine, la fine sopra tutto sente di languore? Questo squarcio è un vaticinio di una principessa di sangue troiano, sorella d'Ettore, e sciagurata per le sventure che prevedeva. Non può dissimulare la gloria de' distruttori della sua famiglia, ma ella cerca alcuna consolazione vaticinando per l'infelice valore d'Ettore una gloria piú modesta e piú santa; non d'un principe conquistatore, ma d'un guerriero caduto difendendo la patria. Nelle ultime parole di Cassandra:
E finché il Sole
Risplenderà su le sciagure umane
l'autore s'è studiato di raccorre tutti i sentimenti d'una vergine profetessa che si rassegna alla fatale ed inevitabile infelicità de' mortali, che la compiange negli altri perchè sente tutto il dolore della sua propria, e che prevedendola perpetua su la terra la assegna per termine alla fama del piú nobile e del men fortunato di tutti gli Eroi. Ove l'autore avesse mirato al patetico avrebbe amplificati questi affetti; mirava invece al sublime, e li ha concentrati (21): e credendo a Longino non tentò piú melodia ne' suoi versi (22). Se non che forse ei non ha conseguito se non se la severità e l'oscurità, compagne talor del sublime.
Che se fra' peccati di questo carme gl'italiani non trovano nè aridità di sentimento, nè stanchezza di fantasia, cosa s'ha egli a pensare di lei? O ch'ella ha inteso senza sentire -- o che ha censurato senza intendere. Non le appongo la prima colpa, perch'ella non ha dato ancor prove di fibra cornea: bensí la tengo per convinto di studio immaturo della nostra lingua: e a lei non resta che il merito d'una nobile confessione, dí cui nè Plutarco nè Dionisio Longino arrossirono. Il primo nel paralello di Demostene e di Cicerone non s'attenta a paragonare la loro eloquenza; l'altro nel Trattato del sublime (23) si reputa incompetente a tanto giudizio; eleggendo que' due magnanimi, sebben versatissimi nella Romana letteratura, di apparire men dotti per non farsi sospettare impudenti.
Poichè io pubblico questa lettera, io voleva soddisfare al debito che ha ogni scrittore di rivolgere cio che stampa a qualche pubblica utilità, e m'accingeva a parlare su le cause e gli effetti morali dell'articolo a cui ho ardito rispondere, ed a compiangere seco lei la mendicità, la sguajataggine e la schiavitú de' nostri giornali. Ma presso lo stampatore di quest'opuscolo trovo pronto a pubblicarsi un volume di versioni dal greco, e nel proemio queste sentenze:
«Ai danni che si producono dal non sapere de gli Scrittori, un altro poi se ne aggiunge, e gravissimo: quello cioè delle insane decisioni che tutto dí si pronunziano intorno alle opere letterarie. E in questa parte, piú assai che col sottrarre la debita lode agli esimii, si suole generalmente commetter gran fallo col celebrare i mediocri e gl'infimi, e col mettere alto quanto le stelle i deliri de le fantasie piú sfrenate o piú deboli con tanta pompa di elogi, con quanta non si applaudirebbe ai voli delle menti piú vigorose e piú caste. E l'arroganza di questi giudizi ci viene per lo piú da tali uomini, che o poco o nulla s'intendono di quelle cose, su le quali con usurpata autorità si accostano a dar sentenza, quand'essi pure non siano sospinti a ciò da la cieca passione, o da la abitudine, o forse ancor da gli sproni di una turpe venalità. Intanto è loro mercè, se quei giovani, i quali o non sanno o non si ardiscono ancora di giudicar per sè soli, perdono ogni norma sicura per discernere il vero bello dal falso, e se gli scrittori piú dispregevoli, stoltamente adulati, si affezionano vie maggiormente ai loro vizi, e li tengono per virtú. D'altra parte alcuni di quelli, che pur sono in via di buoni progressi, sedotti da coteste lusinghe, e meno solleciti del suffragio dei pochi saggi e dell'immortalità del nome, che dei passeggeri e popolari applausi, si distolgono dal retto cammino, e corrono ad ingrossare la folla degli scrittori ampollosi e scorretti. Mentre parecchi dei valorosi giustamente offesi del sentirsi anteporre od equiparare i piú imbelli, s'intepidiscono nell'amor de lo scrivere, o del tutto volentieri se ne allontanano. Nella qual cosa essi imitano l'esempio di Achille, il quale non veggendosi onorato guanto gli pareva che si competesse a la sua virtú, volle fuggire ogni occasion di mostrarla; e perciò rintraendosi co' suoi piú cari a le navi, nel suo segreto l'ire addolciva, rimirando le disciplinate schiere dei Greci fuggir taciturne dinanzi alla vociferante e disordinata turba dei Barbari».
Il professore Lamberti, elegantissimo autore delle versioni, pensò quello che io penso, e lo dice meglio ch'io non so. L'ho trascritto per presentarle con la mia lettera alcuna cosa degna di lei.
Onde finirò deplorando la dignità d'un uomo suo pari costretto, pour clonner le ton aux journalistes, a scrivere di ciò che non sa; costretto, per l'amore di noi studenti, ad affrontare la taccia, per non dir altro, di accattabrighe; costretto infine -- e qui sa il cielo s'io m'investo di tutta l'angoscia del suo cuore paterno -- costretto a far tradurre, e senza poter correggere i barbarismi de' traduttori, i suoi bei parti francesi nel bastardo italiano d'una gazzetta che senza stile giudica dello stile. Ma cosí va il mondo, monsieur Guill...! la colpa è d'altri, pur troppo, e noi n'abbiam l'onta e la pena; ella parlando di ciò che non intende; io rispondendo a chi non puo intendermi.
Brescia, 26 Giugno 1807.
UGO FOSCOLO


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(1) Un francese, qualunque sia il suo ingegno, non ha ombra di pudore nel farne pompa.
(2) «Qual fia tistoro a' dí perduti un sasso | Che distingua le mie dalle infinite | Ossa che in terra e in mar semina morte?»
S'ella avesse concepita la forza di questa frase, io non le desterei il rimorso d'aver calunniato d'arroganza l'autore, che nè qui, nè mai chiede un sano distinto per sè.
(3) Nè qui l'autore parla di sè: «Sol chi non lascia eredità d'affetti | Poca gioia ha dell'urna ; e se pur mira | Dopo l'esequie, errar vede il suo spirto | Fra 'l compianto de' templi Acherontei, | O ricovrarsi sotto le grandi ale | Del perdono d'Iddio; ma la sua polve | Lascia alle ortiche di deserta gleba | Ove nè donna innamorata preghi, | Nè passeggier solingo oda il sospiro | Che dal tumulo a noi manda Natura».
(4) Sarò obbligatissimo al signor Guill... se m'indicherà i passi che l'autore ha di comune con Hervey, perch'io men acuto non seppi osservarli.
(5) S'ella prende per elegia una poesia lirica, la colpa non è dell'autore: nè Pindaro, perchè spesso pianga o sferzi, sarà men lirico. E se in questi versi citati v'è satira nel pensiero, che trova ella di satirico nello stile? Non tanto le cose, quanto i modi di esporle distinguono i generi di poesia: precetto non ignoto a lei uomo dottissimo, ma per l'inesperienza della nostra lingua non applicato a questo passo.
(6) Il Parini punge i nobili oziosi: se il Parini li ha emendati, l'autore è colpevole perchè siegue a pungerli.
(7) Pungeteli da per tutto.
(8) Non li alletta perchè da qualche anno in qua gli evirati sono invecchiati. Nè tutti i cantori evirati denno ringraziare il norcino: la venalità e la paura castrano l'ingegno e il cuore di molti altri; e la castrazione aiuta a ingrassare. Non è egli vero, monsiuer Guill...?
(9) Il Parini giace in uno de' cimiteri nei quali si portano anche i cadaveri dei giustiziati. -- Ma la morte riconcilia tutti. -- No; la morte annienta ne' sepolti il senso della virtù e de' delitti. Ma i vivi che hanno anima e patria non si riconciliano mai col teschio di un malfattore che insanguina le reliquie d'un uomo d'altissima mente e di santi costumi. Se non che forse la patria e l'anima non hanno a che fare ne' giornali.
(10) Alla postilla [18] si vedrà quali sentimenti questo poema deve respirare.
(11) Questi versi hanno a che fare co' morti come Virgilio ha a che fare con lei. Ella gli scrive come li trovò citati dal traduttore francese di Hervey nel primo sermone. Li rilegga col contesto nelle Georgiche, lib.IV, verso 86. Virgilio raccomanda al colono di dividere le api combattenti gittando nella mischia un pugno di polvere: cosi questi sdegni e queste battaglie represse da un po' di polvere, si calmeranno. -- Scriva Hi motus, non Hic, motus; e quiescent non quiescit -- perchè regalerebbe due solecismi a Virgilio che regala de' versi bellissimi a chi gl'intende.
(12) Il senso comune risponde: I morti si stanno in pace perchè son morti, e i vivi si fanno guerra perchè son vivi. Che se il buon pastore di Biddeford fosse disceso a visitar que' cadaveri, non li avrebbe per avventura trovati in tanta concordia. Milioni di esseri riprodotti dalle reliquie umane adempiono la legge universale della natura di distruggersi per riprodursi.
(13) Peccato che anche qui Latourneur non segni il luogo del verso ch'ei cita appiè della pagina terza d'Hervey! ch'ella non avrebbe fatto bello Orazio della vera filosofia e della vera sensibilità tutta propria de' moderni scrittori. Non pareva ad Orazio che le ceneri de' tristi e de' buoni fossero necessariamente confuse, bensí che la morte non perdonasse nè a' vecchi nè a' giovani: il verso è nel lib. I, oda 28, ov'ella vedrà che funus non vuol dir cinis.
(14) Umane belve: prima del patto sociale, gli uomini viveano nello stato ferino; espressione disappassionata di G. B. Vico e di tutti gli scrittori di jus naturale. E s'ella, monsieur Guill..., volesse recare le sue cognizioni a que' selvaggi che hanno nè are, nè connubii, nè leggi, s'accorgerebbero s'ei sono belve.
(15) È dunque ghiribizzo il dire che il patto sociale ammansò il genere umano; che la sepoltura sottrasse i morti dalle fiere, e i vivi dal contagio; e che gli avanzi dell'uomo si riproducono con altra vita e sott'altre forme? Ella non ha capito nè una sola parola.
(16) L'autore incolpato d'oscurità rispose: Doversi l'oscurità apporre parte a chi legge, e parte a chi scrive; però egli si pigliava la metà della colpa. Ma sapendo che l'ignoranza non vuole arrendersi colpevole in nulla, tentò di provvederle con alcune note, e citò questo verso:
Veridicos Parcae coeperunt edere cantus
CATULLOEpital. di Tetide, v. 306.
Ed avrebbe anche citato Tibullo, Platone ed Omero, s'ei non avesse badato più alla intelligenza del passo che alla boria d'erudizione. Ma che dirò io di quest'accusa? Ch'ella non sa di latino? sarei maligno, perch'io la crederei impostore. -— Ch'ella dissimula la nota? sarei più maligno, perchè la crederei calunniatore. —- Ch'ella non ha letto tutto il libro? mi appiglio a questa congettura come la più discreta; ed è convalidata dall'argomento che chi giudica senza intendere può anche giudicar senza leggere.
(17) Ma nel Carme non si parla della tomba di Achille né di Patroclo; bensí in una nota per incidenza.
(18) Per censurare i mezzi d'un libro binsogna saperne lo scopo. Young ed Hervey meditarono sui sepolcri da cristiani: i loro libri hanno per iscopo la rassegnazione alla morte e il conforto d'un'altra vita; ed a' predicatori protestanti bastavano le tombe de' protestanti. Gray scrisse da filosofo: la sua elegia ha per iscopo di persuadere l'oscurità della vita e la tranquillità della morte; quindi gli basta un cimitero campestre. L'autore considera i sepolcri politicamente, ed ha per iscopo di animare l'emulazione politica degl'italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi: però dovea viaggiare più di Young, d'Hervey e di Gray, e predicare non la resurrezione de' corpi, ma delle virtù.
(19) Omero nel Carme non va su le sepolture de' Greci, ma de' principi troiani.
(20) [...]
(21) Quello sommamente è sublime che dà molto da pensare. Longino, sez. VII.
(22) Il ritmo armonioso e studiato disdice al sublime. Sez. XLI.
(23) Sez. XII.

EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Ugo Foscolo - Opere I, poesie e tragedie", edizione diretta da Franco Gavazzeni con la collaborazione di Maddalena Lombardi e Franco Longoni, Einaudi-Gallimard, Torino, 1994

per la IV A


 [1] Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. 'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt ' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. [2] Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. [3] At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. [4] Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum imminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant. [5] Deinde eiusdem arrogantiae proverbium iactatur, totidem hostes esse quot servos: non habemus illos hostes sed facimus. Alia interim crudelia, inhumana praetereo, quod ne tamquam hominibus quidem sed tamquam iumentis abutimur. [quod] Cum ad cenandum discubuimus, alius sputa deterget, alius reliquias temulentorum subditus colligit. [6] Alius pretiosas aves scindit; per pectus et clunes certis ductibus circumferens eruditam manum frusta excutit, infelix, qui huic uni rei vivit, ut altilia decenter secet, nisi quod miserior est qui hoc voluptatis causa docet quam qui necessitatis discit. [7] Alius vini minister in muliebrem modum ornatus cum aetate luctatur: non potest effugere pueritiam, retrahitur, iamque militari habitu glaber retritis pilis aut penitus evulsis tota nocte pervigilat, quam inter ebrietatem domini ac libidinem dividit et in cubiculo vir, in convivio puer est. [8] Alius, cui convivarum censura permissa est, perstat infelix et exspectat quos adulatio et intemperantia aut gulae aut linguae revocet in crastinum. Adice obsonatores quibus dominici palati notitia subtilis est, qui sciunt cuius illum rei sapor excitet, cuius delectet aspectus, cuius novitate nauseabundus erigi possit, quid iam ipsa satietate fastidiat, quid illo die esuriat. Cum his cenare non sustinet et maiestatis suae deminutionem putat ad eandem mensam cum servo suo accedere. Di melius! quot ex istis dominos habet! [9] Stare ante limen Callisti domi num suum vidi et eum qui illi impegerat titulum, qui inter reicula manicipia produxerat, aliis intrantibus excludi. Rettulit illi gratiam servus ille in primam decuriam coniectus, in qua vocem praeco experitur: et ipse illum invicem apologavit, et ipse non iudicavit domo sua dignum. Dominus Callistum vendidit: sed domino quam multa Callistus!
[10] Vis tu cogitare istum quem servum tuum vocas ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum. Variana clade multos splendidissime natos, senatorium per militiam auspicantes gradum, fortuna depressit: alium ex illis pastorem, alium custodem casae fecit. Contemne nunc eius fortunae hominem in quam transire dum contemnis potes.
[11] Nolo in ingentem me locum immittere et de usu servorum disputare, in quos superbissimi, crudelissimi, contumeliosissimi sumus. Haec tamen praecepti mei summa est: sic cum inferiore vivas quemadmodum tecum superiorem velis vivere. Quotiens in mentem venerit quantum tibi in servum liceat, veniat in mentem tantundem in te domino tuo licere. [12] 'At ego' inquis 'nullum habeo dominum.' Bona aetas est: forsitan habebis. Nescis qua aetate Hecuba servire coeperit, qua Croesus, qua Darei mater, qua Platon, qua Diogenes? [13] Vive cum servo clementer, comiter quoque, et in sermonem illum admitte et in consilium et in convictum.
Hoc loco acclamabit mihi tota manus delicatorum 'nihil hac re humilius, nihil turpius'. Hos ego eosdem deprehendam alienorum servorum osculantes manum. [14] Ne illud quidem videtis, quam omnem invidiam maiores nostri dominis, omnem contumeliam servis detraxerint? Dominum patrem familiae appellaverunt, servos - quod etiam in mimis adhuc durat - familiares; instituerunt diem festum, non quo solo cum servis domini vescerentur, sed quo utique; honores illis in domo gerere, ius dicere permiserunt et domum pusillam rem publicam esse iudicaverunt. [15] 'Quid ergo? omnes servos admovebo mensae meae?' Non magis quam omnes liberos. Erras si existimas me quosdam quasi sordidioris operae reiecturum, ut puta illum mulionem et illum bubulcum. Non ministeriis illos aestimabo sed moribus: sibi quisque dat mores, ministeria casus assignat. Quidam cenent tecum quia digni sunt, quidam ut sint; si quid enim in illis ex sordida conversatione servile est, honestiorum convictus excutiet. [16] Non est, mi Lucili, quod amicum tantum in foro et in curia quaeras: si diligenter attenderis, et domi invenies. Saepe bona materia cessat sine artifice: tempta et experire. Quemadmodum stultus est qui equum empturus non ipsum inspicit sed stratum eius ac frenos, sic stultissimus est qui hominem aut ex veste aut ex condicione, quae vestis modo nobis circumdata est, aestimat. [17] 'Servus est.' Sed fortasse liber animo. 'Servus est.' Hoc illi nocebit? Ostende quis non sit: alius libidini servit, alius avaritiae, alius ambitioni, , omnes timori. Dabo consularem aniculae servientem, dabo ancillulae divitem, ostendam nobilissimos iuvenes mancipia pantomimorum: nulla servitus turpior est quam voluntaria. Quare non est quod fastidiosi isti te deterreant quominus servis tuis hilarem te praestes et non superbe superiorem: colant potius te quam timeant.
[18] Dicet aliquis nunc me vocare ad pilleum servos et dominos de fastigio suo deicere, quod dixi, 'colant potius dominum quam timeant'. 'Ita' inquit 'prorsus? colant tamquam clientes, tamquam salutatores?' Hoc qui dixerit obliviscetur id dominis parum non esse quod deo sat est. Qui colitur, et amatur: non potest amor cum timore misceri. [19] Rectissime ergo facere te iudico quod timeri a servis tuis non vis, quod verborum castigatione uteris: verberibus muta admonentur. Non quidquid nos offendit et laedit; sed ad rabiem cogunt pervenire deliciae, ut quidquid non ex voluntate respondit iram evocet. [20] Regum nobis induimus animos; nam illi quoque obliti et suarum virium et imbecillitas alienae sic excandescunt, sic saeviunt, quasi iniuriam acceperint, a cuius rei periculo illos fortunae suae magnitudo tutissimos praestat. Nec hoc ignorant, sed occasionem nocendi captant querendo; acceperunt iniuriam ut facerent.
[21] Diutius te morari nolo; non est enim tibi exhortatione opus. Hoc habent inter cetera boni mores: placent sibi, permanent. Levis est malitia, saepe mutatur, non in melius sed in aliud. Vale.