sabato 19 giugno 2010

La morte non è niente.
Sono solo scivolato nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato,
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce,
non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami!
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Che cos’è la morte, se non un accidente trascurabile ?
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente,
solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami:
il tuo sorriso è la mia pace.

Henry Scott Holland

giovedì 1 aprile 2010

"domani viene Michele" di Luisa Nardecchia

DOMANI VIENE MICHELE
di Luisa Nardecchia


“Domani mattina viene Michele".
Non mi ricordo che effetto mi fece questa frase detta al telefono dalla voce emozionata di Giuseppe. Di sicuro mi ha gettato nel panico. "Sì... Michele viene domani mattina, viene a scuola a trovarci".
Oddio. Che gli dico. Come mi comporto. Non ci so fare, non sono la persona giusta, Giuseppe ha sbagliato…
Cosa gli dico io a Michele Gazich?
Faccio un po' di prove tecniche di trasmissione tipo: "Buongiorno Maestro, Lei non può immaginare che cosa sia la Sua musica per me" oppure: "Buongiorno Michele, è un onore averLa qui, venga, Le mostro i corridoi e la palestra".
Eccerto. I corridoi e la palestra.
A Michele Gazich.

"Ma dai - mi dico - in fondo sarà lui a parlare. Gli artisti son così, un po' matti, un po' narcisisti. Mi parlerà dell'ultimo disco e andrà tutto bene. Anzi, speriamo che arrivi quando sto facendo lezione, almeno lo presento ai ragazzi. Non mi è mai capitata una cosa del genere. Un cantautore in classe".
Mi figuro la scena.
Lui e Giuseppe entrano proprio quando sto finendo di leggere il "Cinque maggio". Non so se avete presente: lettura enfatica dell'ode in climax fino alla pausa teatrale d'obbligo, prima della parola "posò". In genere pochi secondi prima suona il campanello e mi rovina. Quest'anno invece busseranno alla porta e sarà Michele Gazich. Ok. Può andare.
Mi sfugge il seguito della scena. Che faccio dopo? Mi preparo le fotocopie di qualche suo testo? Mi vedo: distribuisco le fotocopie di "Poeta in gabbia" e poi... “Analisi del testo!". Sacrosanta rivolta di massa della classe.
Cambio film.
Ascoltiamo un brano di Michele, poi intavoliamo una discussione. Sento la voce di Nanni Moretti dall'ultima fila che grida: "Noooo ... il dibattito nooooooooo!!". Parole sante.
Reset.
Altra scena.
Provo a immaginere i dettagli. Com'è fatto, dove lo faccio sedere, come si svolge la scena.
"Dovresti vederlo" mi ha detto un giorno Giuseppe, ben sapendo che non mi sono mai preoccupata di dargli una faccia. "E' un personaggio, io l'ho conosciuto a Subiaco che girava da solo per le montagne, col suo cappello in testa".
Quando Giuseppe ha detto la frase "col suo cappello in testa", ha fatto un gesto come per alzare la mano in aria, così: "CAPPELLO!" E non un gestuccio piccolo, tipo a schiacciarsi la mano in testa, come a dire la coppola di Lucio Dalla, no no, proprio con la mano per aria, alta, con gli occhi in un piccolo guizzo all'insù. Come a dire il cilindro di Zucchero Fornaciari. Vedo un corvaccio nero col pastrano lungo e gli occhialetti da cieco senza cane, salire le scale della scuola.
Brutto effetto.
"Un cilindro. Lo vedi?" mi dico "Dev'essere un tipo strano, e io coi tipi strani mi impappino come con i bambini, perché sono imprevedibili, ti spiazzano con una battuta che per loro è niente, e invece a me mi stende".
...
Che poi i miti non si dovrebbero mai conoscere.
E che cavolo, Michele era un mito per me, come gli salta in mente a Giuseppe di trasformarlo in carne e ossa? se ne stava bello bello nella mia teca mentale, mi parlava con le sue canzoni, da lontano, etereo e incorporeo... Come Orazio, Baudelaire, Oscar Wilde, Pirandello. E chi li conosce? Che è 'sta cosa che si deve per forza impattare col corpo? Sono aquilana verace, porca miseria. gli aquilani non si smuovono mai per i miti. Una volta mi trovavo a Roma in un bar e mentre telefonavo a casa vidi passare un politico importante, così mi scappò di gridare con entusiasmo a mio padre, che era all'altro capo del telefono: "Non ci crederai, ma è appena passato Tizio!" E mio padre, laconico, da buon aquilano, rispose: "Salutamelo..."
Oh sanguis meus! C'aveva ragione!
I personaggi sono fatti per stare nelle teche.
E invece, domani Michele viene qui.
Esce dalla teca dove l'ho tenuto per tutto il terremoto.
Ma andrà tutto bene: faremo un giro, io, Giuseppe, lui, il suo pastrano nero e il suo cilindro.
Farò gli onori di casa e tutto andrà come deve andare.

Ci siamo, è il momento, sono abbastanza calma.
Sto per terminare la lezione sul "Cinque maggio" come da copione.
Faccio la pausa teatrale, dico " posò ". Silenzio.
La classe, muta, assapora il momento catartico.
Subito dopo sento bussare, e schizzo in piedi.
La porta si apre di una spanna appena.
Intravedo Giuseppe, che resta fuori: con lo sguardo fa un gesto come per dire "puoi uscire un attimo?".
Mi precipito, preoccupata. "Sarà successo qualcosa".
E invece Michele è lì.
Vicino a Giuseppe.

Il cappello è in mano.
...
E' un cappello normale, ed è in mano.
Niente cilindro, niente pastrano nero, niente occhialetti da cieco.
Dalle finestre del corridoio, una luce morbida.
Pochi secondi. Capisco tutto.
La Endemol Deformation mi ha fatto aspettare un uomo di spettacolo.
E invece Michele è un Uomo. Come quello di Oriana Fallaci.

Lui è ciò che scrive.

Mi saluta affabile, dolce.
La mano è leggera.
La voce è leggera.
Gli occhi chiedono.

Tutto in lui è partecipazione.
Mi chiede del terremoto, vuole sapere.
Mi chiede del campo di Collemaggio.
Io ero al campo a Collemaggio.
Mi chiede di Santa Maria degli Angeli.
Io abitavo vicino a Santa Maria degli Angeli.
Pensavo che venisse per parlare.
Invece è qui che mi ascolta.
Ho davanti a me una persona gentile.
GENTILE.
Avevo dimenticato che esistono persone GENTILI.

Lui è ciò che scrive.

Resta cinque, dieci minuti, poi dice che non vuole disturbare e se ne va.
Nell'alone di luce delle finestre del corridoio.
Resto lì.
Con l'anima piena.

Io non so perché certe cose succedono.
Non so perché certe persone mandano così tanta energia da sembrare angeli.
E non so perché tutto questo sia successo a me.

Ho conosciuto un poeta.
O forse un angelo.
Pensandoci bene non c'è differenza.

sabato 13 marzo 2010

la nave dei folli

E disse «Andiamo si va per partire
il vento già spacca già gonfia le vele
e l'àncora-angoscia per mille e più braccia
già leva dal fango di mille miserie»

«Non posso» - risposi - «le mille valigie
di questa partenza mi legano al mondo;
io per partire le devo lasciare
però senza quelle per me non c'è volo»

Mi disse: «Il bagaglio di mille paure
per mille d'angosce di vecchie certezze
per mille speranze di cane deluso
che resta bastardo tra mille carezze»

Mi disse: «È questo che devi lasciare
sul molo del tempo per una speranza
raccogli il tuo sporco e tienilo stretto
ché altro non serve per fare allegria»

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

È piena la nave dei cani delusi
rimasti bastardi tra mille carezze
è bello vederli coi pugni ben chiusi
tenersi lo sporco, lasciar le promesse

dei mondi civili dei mille ritratti
quadrati perfetti del senso comune
cornici di forme a specchio pulite
così che la rabbia si umilia nell'arte

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

E guardo la vela di fogli di carta...
mi volto e lontano sul molo già vedo
con l'occhio civile l'esperto dell'arte
cercare l'orgasmo sui mille bagagli

Lo guardo felice e lancio la pietra:
si ferma nel cielo più grigio di lastra,
nel cielo si affila a lama sicura
che piomba, ti sfiora babbeo e ti castra

La nave dei folli veleggia veloce
il foglio garrisce nel gioco di parte;
sul bianco compare ben rossa una croce:
un altro caduto sul campo dell'arte

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

Milano spaccata tra uffici e stazioni
tra fabbriche e chiese tranciate ridendo
passate sul filo di spada e di prua:
la nave dei cani veleggia sicura

A notte coi pugni ben chiusi d'amore
guardando la scia dei mille rottami
di arte e cultura, d'angosce d'autore
dei mille valori metropolitani:

a noi cani sporchi più volte delusi
rimasti bastardi tra mille carezze
ci prende la voglia di aprire le mani
di unire alle vele le nostre bandiere

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

E quando spaccata ogni vecchia cultura
che è anche nostra e che abbiamo lasciata
tra mille valigie sui moli d'angoscia
nel porto dell'arte timbrata e schedata:

potremo guardare la scelta futura
la scelta dei cani bastardi nell'ossa
e ancora una volta e chiedersi ancora
se ancora tentare se ancora si possa

E allora trovando negli occhi compagni
la voglia e la gioia di essere bimbi
ognuno già bimbo dirà: «Certo è mia:
si può si può fare la nave è anche mia

La nave del sogno è mia per ragione,
è nostra per scelta di cani delusi
che sanno creare tenendo lo sporco
ben stretto e cosciente tra pugni rinchiusi».

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

La nave dei folli che rompe in letizia
la vecchia cultura con nuova allegria
e tutto il dolore già trancia sul ferro
del grande lucchetto per dare la via

al volo finale di tutto l'amore
al volo finale della fantasia
e ridere al tempo di oggi struttura
eletta a potere della borghesia

E ancora più bimbi con carta e bandiere
guardando diritto il solo pennone
faremo la danza dei cani delusi
coi pugni serrati per nuova illusione

Ma quanto dolore per dare allo svolo
di te fantasia un attimo solo

La nave dei folli eletta a "ragione"
per segno diventa parola e poesia
diventa creazione per rivoluzione
per l'attimo solo, ma di fantasia

diventa creazione per rivoluzione
per l'attimo solo, ma di fantasia

(ivan della mea)

sabato 30 gennaio 2010

Prendimi la pelle di un tempo
divino amore
quella scorticata e precisa
che hanno dato le mie labbra.
Le mie labbra sono ombre furenti,
rendi i miei baci amore
prendimi la polvere delle ali
perché possa volarti sul cammino
io fantasma gioioso
degli specchi.
È così diseguale la mia vita
da quello che vorrei sapere.
Eppure al di là di ogni immondizia
e sutura, c'è la grande speranza
che il tempo redima i folli
e l'amore spazzi via ogni cosa
e lasci inaspettatamente viva
una rima baciata.

Alda Merini

lunedì 11 gennaio 2010

Lentamente Muore

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.

(P. Neruda)